mercoledì 6 gennaio 2016

Un misterioso pesce: il blennide di Heuvelmans


Nel 1986, in Croazia, lo zoologo François Charousset de Sarre scopre una nuova specie appartenente alla famiglia Blenniidae. Si tratta di un piccolo pesce, circa 6,5-7 cm di lunghezza totale, che, come la maggior parte dei blennidi, vive in acque molto basse. Una delle principali caratteristiche di questa specie, che in alcuni testi criptozoologici venne descritta come un pesce di colore giallo, è la particolare colorazione della testa: gialla sulle guance e nera sul resto del capo. Alla nuova specie venne dato, in onore di Bernard Heuvelmans, zoologo ritenuto fondatore della criptozoologia, il nome di Lipophrys heuvelmansi. Tuttavia, negli anni successivi alla sua scoperta, nessuno riuscì a trovarlo e il blennide di Heuvelmans sembrò sparire nel nulla. La specie venne solo  brevemente citata in qualche testo criptozoologico e il suo nome apparì, accompagnato da pochissime informazioni, su diversi siti web zoologici e di nomenclatura zoologica. Solo circa 30 anni dopo, uno studio ne svela finalmente il mistero. Dopo un'accurata analisi effettuata sul paratipo, preservato al Museo Zoologico di Losanna (Svizzera), si può oggi affermare che Lipophrys heuvelmansi altro non è che l'esemplare maschio della comune Bavosa Gote Gialle (Microlipophrys canevae) e va quindi considerata sinonimo di quest'ultima specie. De Sarre non era a conoscenza del marcato dimorfismo sessuale presente nella Bavosa Gote Gialle. Nel sito in cui osservò la sua nuova specie, infatti, riporta anche la presenza della Gote Gialle (si trattava in tutta probabilità di individui immaturi e/o femmine, che non mostravano quindi le guance gialle su un capo scuro). Quindi, nonostante la sua esperienza, De Sarre confuse i maschi della specie, caratterizzati dalla "maschera riproduttiva" descritta in precedenza, con una nuova specie; mentre, gli individui che non mostravano tale caratteristica, vennero correttamente identificati come Bavosa Gote Gialle. Questa caratteristica "maschera riproduttiva" non è tuttavia esclusiva della Gote Gialle, poiché anche i maschi delle altre specie appartenenti al genere Microlipophrys, durante il periodo riproduttivo, mostrano una "maschera riproduttiva" simile. 

In foto, la prima in assoluto, viene mostrato il paratipo del blennide di Heuvelmans fotografato al Museo Zoologico di Losanna in Svizzera (© F. Tiralongo). 
L'esemplare, dopo un lungo periodo di conservazione in alcol, ha perso del tutto la colorazione tipica della specie.


giovedì 31 dicembre 2015

Plastica: la minaccia invisibile


Sicuramente molti di voi avranno sentito parlare degli effetti dannosi che la plastica ha sull'ambiente e sugli organismi marini. Dai sacchetti di plastica ritrovati all'interno dell'intestino delle tartarughe marine, che li scambiano per meduse o organismi simili, a quelli presenti nel tratto digerente dei cetacei, fino ai più vari pezzi di plastica ingeriti dagli uccelli marini. Assieme a quello delle reti fantasma (ghost nets), sono argomenti ripetutamente presentati in televisione e su una miriade di pagine web. Da qualche anno, per fortuna, anche in Italia si inizia a parlare dei "vortici di plastica" (trash vortex) o "continenti di plastica", immense concentrazioni di materiali, appunto principalmente di plastica, ammucchiati dalle correnti in determinate aree di convergenza presenti nei diversi oceani. In Mediterraneo, date le peculiari caratteristiche idrodinamiche, non si parla, almeno per adesso, di veri "continenti" o, sarebbe forse meglio nel nostro caso dire, "isole" di plastica; anche se, risulta ormai sempre più evidente, il nostro Bacino è anch'esso pieno di plastica di tutti i tipi e in alcune aree (anche "protette") la densità della plastica nella colonna d'acqua è uguale o simile a quella delle aree oceaniche maggiormente contaminate. Se quindi sapere della presenza di tutta questa plastica nei nostri mari possa sicuramente suscitare emozioni negative, una serissima minaccia è rappresentata dalla "plastica invisibile". Silenziosa e letale, la microplastica rappresenta una serissima minaccia per l'ecosistema marino. Sebbene, dopo tempi molto lunghi, la plastica in mare venga degradata, il pericolo rimane, anzi, aumenta. I frammenti più piccoli spariscono alla nostra vista, ma continuano a persistere nell'ambiente. Inoltre, la microplastica si trova già in alcuni cosmetici e altri prodotti utilizzati dall'uomo, che finiscono purtroppo, quasi sempre, prima o poi, in mare. Gli organismi marini che si nutrono di plancton non sono in grado di discriminare le piccole particelle di plastica dalle loro prede, organismi delle stesse dimensioni, millimetrici o addirittura di dimensioni inferiori al millimetro. La plastica quindi si accumula negli organismi, come i piccoli pesci planctofagi (che si nutrono di plancton) e "scala" la piramide alimentare fino a raggiungere gli animali più grandi, uomo compreso. Inoltre, molti composti altamente tossici e persistenti, come i derivati del DDT, i PCB, etc.., vanno a legarsi sulla superficie di queste microparticelle, concentrandosi, infine, nei tessuti degli organismi che se ne nutrono, con effetti deleteri più o meno gravi, spesso imprevedibili e molti ancora da approfondire. Se ciò che vediamo, la busta di plastica che svolazza tristemente lungo una spiaggia, le bottiglie di plastica galleggianti e incrostate da organismi marini vari, a testimonianza della loro lunga permanenza in mare, risulta "scomodo" dal punto di vista estetico, le particelle di plastica più piccole di un coriandolo rappresentano una minaccia sempre più grave e allo stesso tempo subdola. I primi studi in Mediterraneo mostrano chiaramente come anche nel nostro mare queste microplastiche stiano raggiungendo negli organismi marini concentrazioni assolutamente preoccupanti. In alcune zone, basta spremere le viscere di un pesce appena pescato per accorgersi che da queste schizzano letteralmente fuori minuscoli frammenti multicolori; il mare sta morendo. Il metodo di campionamento è ormai standardizzato (in modo che i risultati ottenuti sulle concentrazioni di plastica possano essere confrontabili in tutto il mondo). Grazie alle "manta trawls" (così si chiamano questi particolari "retini" adoperati in tutto il mondo da alcune imbarcazioni per campionare la plastica dispersa nel mare) si stanno ottenendo i primi risultati, purtroppo molto allarmanti, per il nostro Mar Mediterraneo e porre rimedio all'uso e consumo scorretto, quindi spreco, di plastica è il problema fondamentale da risolvere, o ci faremo letteralmente il bagno nella plastica, avvelenando gli animali marini e noi stessi.

In foto: macro, micro e nano-plastica con alcuni dei quasi infiniti materiali dai quali si originano. (fonte: http://www.ilvo.vlaanderen.be).

mercoledì 31 dicembre 2014

Blennidi delle acque italiane


I blennidi, comunemente noti come bavose, appartengono al numeroso raggruppamento ittico della famiglia Blenniidae. Le specie sono distribuite in tutte le acque del globo, principalmente in acque marine tropicali e subtropicali, ma sono presenti anche in acque salmastre e persino d'acqua dolce. In tutto, ne sono attualmente riconosciute circa 400 specie. Il nome comune italiano che sta a indicare la famiglia è quello di bavose. Tali pesci, infatti, posseggono una pelle nuda ricoperta da un cospicuo strato mucoso che la protegge da infezioni e danni meccanici. Ciò rende l'animale molto viscido e scivoloso al tatto. La linea laterale, spesso, è ridotta e si limita alla porzione anteriore del corpo dell'animale. In alcune specie è coperta da scaglie modificate. Sul dorso è presente un'unica lunga pinna dorsale, spesso caratterizzata da un' evidente incavatura a circa metà della sua lunghezza. Le ventrali si trovano invece in posizione giugulare, dinanzi alle relativamente ampie pinne pettorali. L'anale è anch'essa estesa e si contrappone alla dorsale, nella regione posteriore del corpo. La caudale è in genere piuttosto ampia e con margini arrotondati. Nelle nostre acque sono presenti 20 specie in tutto, la maggior parte delle quali ampiamente distribuite e piuttosto comuni e quindi facili da osservare un po' in tutte le aree costiere italiane. Di queste, una sola specie è esclusiva di acque dolci, la Cagnetta (Salaria fluviatilis). La maggior parte delle specie italiane non supera, in media, i 7-8 cm di lunghezza totale. Le specie più piccole non superano i 4-5 centimetri e appartengono al genere Microlipophrys, istituito nel 2005. A questo genere, in Italia, appartengono 4 specie. Di queste, la più grande è la Bavosa Gote Gialle (Microlipophrys canevae) con i suoi 8 cm di lunghezza. I maschi di questo genere sono caratterizzati dall'assumere, durante la stagione riproduttiva, una particolare livrea che ne rende le guance di un colore giallo intenso. Tra i giganti italiani del mondo dei blennidi, invece, possiamo considerare 3 specie: la grossa e spesso panciuta Bavosa Sanguigna (Parablennius sanguinolentus) che può superare eccezionalmente, sebbene di poco, i 20 cm di lunghezza; la meravigliosa Bavosa Occhiuta (Blennius ocellaris), caratterizzata da un'altissima pinna dorsale, che può raggiungere i 20 cm di lunghezza; la Bavosa Ruggine (Parablennius gattorugine), in assoluto il più grosso blennide del Mediterraneo con i suoi 30 centimentri di lunghezza totale. La maggior parte delle specie vive in acque basse e della zona intertidale, su fondali rocciosi ricchi in buche e anfratti o misti a sabbia. Ad esempio, nella fascia di marea è possibile rinvenire con relativa facilità la Bavosa Galletto (Coryphoblennius galerita) e la Bavosa Capone (Lipophrys trigloides), tra l'altro piuttosto simili nella livrea e morfologia generale, sebbene sussistano sufficienti differenze da giustificare la collocazione dei due animali nei due diversi generi. La prima specie, grazie a particolari adattamenti fisiologici, è in grado di effettuare soggiorni relativamente lunghi al di fuori dell'acqua, soprattutto durante le ore notturne. Nessuna delle nostre specie è oggetto di pesca attiva da parte dell'uomo, tuttavia, alcune specie vengono accidentalmente catturate con attrezzi di vario tipo. In genere, con la pesca a fondo dalla riva, soprattutto con canne fisse, è possibile catturare qualche grosso blennide come la Bavosa Sanguigna e la Bavosa Ruggine e qualche altra specie più piccola come la Bavosa Pavone (Salaria pavo) e la Bavosa Capone. Occasionalmente, gli esemplari delle specie più grosse rimangono intrappolati in reti da posta, mentre, un'unica specie, la Bavosa Occhiuta (Blennius ocellaris) viene comunemente catturata con reti a strascico a quote batimetriche relativamente elevate. In tutti i casi, pur essendo commestibili, date le ridotte dimensioni e la scarsità degli individui catturati con i consueti attrezzi da pesca, non rivestono alcuna importanza commerciale. Inoltre, la sensazione di viscido dovuta alla cospicua secrezione di muco, rende questi animali certamente poco appetibili. L'interesse dell'uomo per questi piccoli pesci proviene, invece, dal mondo dell'acquariofilia e della fotografia subacquea. Date le loro meravigliose livree e l'indole curiosa, questi pesci sono tra i più amati dagli acquariofili mediterranei, che li tengono spesso ben volentieri all'interno delle loro vasche, dove questi animali, tra l'altro, si adattano molto bene. Per lo stesso motivo, questi pesci sono anche tra quelli più fotografati da professionisti o da semplici appassionati. Mentre in passato i blennidi erano certamente meno noti alla maggior parte, oggi, grazie alla presenza sul mercato di attrezzatura fotografica alla portata di tutti, questi pesci, sebbene spesso in maniera comunque superficiale, rientrano tra le specie più conosciute e fotografate dai più. Come tutte le creature marine, anche i blennidi rivestono il loro ruolo nell'ecosistema marino, motivo per cui bisogna apprezzarne il valore intrinseco, senza necessariamente relazionarlo a "necessità" umane di tenerli in vasca o di godimenti personali nello scattare e mostrare le foto di queste splendide creature che il mare cela appena sotto la sua superficie o, nel caso di alcune specie, come abbiamo visto, anche poco al di sopra di essa!

Alcuni dei blennidi italiani. A: esemplare maschio di Bavosa Mediterranea (Parablennius incognitus) fa capolino dalla sua tana. B: giovane esemplare di Bavosa Occhiuta (Blennius ocellaris) catturato con reti a strascico ad una profondità di 110 metri. Lunghezza totale circa 6 cm. C: grosso esemplare di Bavosa  Sanguigna (Parablennius sanguinolentus). D: giovane esemplare di Bavosa Ruggine (Parablennius gattorugine). (Foto © Biologia del mare).

mercoledì 27 novembre 2013

Biodiversità: minacce e conservazione. Quale futuro ci attende?

Oggi, più che mai, la parola biodiversità è di frequente utilizzo e forse, in alcuni casi, abuso. Basta scrivere la parola su un qualsiasi motore di ricerca e appariranno migliaia di risultati, tra definizioni varie e articoli. Sentendo questo termine, la prima cosa a cui viene da pensare è all'insieme di tutti i viventi presenti sul nostro pianeta. Quindi, in base a questa definizione, si pensa a tutte le specie esistenti (anche a quelle non ancora scoperte). Il concetto non è fondamentalmente sbagliato, però, la biodiversità, in realtà, comprende molto di più. All'interno di una stessa specie, tra i singoli individui, il materiale genetico non è mai identico (salvo rare e particolari eccezioni), perché è presente una diversità genetica. Tale diversità, costantemente soggetta a selezione naturale, porta inevitabilmente alla differenza tra popolazioni di una stessa specie e, in maniera più ovvia, tra specie diverse. Ma i viventi non si limitano a subire gli effetti dell'ambiente, sono anche in grado di modificarlo, rendendolo più adatto alle proprie esigenze di sopravvivenza. Quindi, la diversità esiste anche a livello di habitat e di ecosistemi. Un ecosistema non è infatti un semplice luogo in cui si trovano contemporaneamente più individui di specie diverse, ma tali individui interagiscono tra loro a vari livelli e contribuiscono a modificare e quindi creare l'ambiente in cui vivono. La natura tende all'equilibrio, un equilibrio dinamico, ma sempre un equilibrio, e quei soggetti che non riescono ad adattarsi ai cambiamenti, o lo fanno troppo lentamente, andranno inevitabilmente incontro alla fine della loro stessa esistenza come specie, l'estinzione, un processo naturale. Nessuna specie, però, ha mai danneggiato tutte le altre in maniera così pesante e rapida. Questo era vero fino alla comparsa di una specie assai particolare, l'uomo. Fin dalla preistoria, iniziammo a modificare irrimediabilmente l'ambiente, portando all'estinzione diverse specie. Tuttavia, il danno maggiore si sta verificando solo negli ultimi secoli e in particolare negli ultimi decenni, dove i tassi di estinzione e la distruzione degli habitat hanno ormai raggiunto livelli inaccettabili e insostenibili. Secondo i calcoli, si estingue, in media, un vertebrato per anno. Inquinamento, agricoltura estensiva, deforestazione, distruzione diretta degli habitat, sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, urbanizzazione, sono tutti processi che stanno logorando la biodiversità, in maniera sempre più profonda e irrimediabile. Grazie allo sviluppo di alcune tecniche, reso possibile dall'industrializzazione, e al conseguente avvento di tutta un'altra serie di tecnologie avanzate, l'uomo oggi raggiunge una densità di popolazione sul pianeta che è di gran lunga superiore a quella prevista per una specie delle nostre dimensioni. Siamo troppi, siamo 7 miliardi. E pensare che fino al periodo della rivoluzione industriale eravamo solo in 500 milioni. Di certo non sarà possibile sostenere ancora a lungo questo abnorme aumento demografico, qualcosa si dovrà fare o sarà lo stesso sistema naturale a fungere da regolatore. Ritornando alla biodiversità, una domanda che ci si deve chiedere è questa: ma dove è concentrata? Dove si trova la maggior parte delle specie esistenti? In linea di massima, il numero delle specie presenti aumenta con il diminuire della latitudine, questo vuol dire che più ci avviciniamo all'equatore, maggiore sarà la biodiversità. Perché? Varie sono le teorie avanzate per spiegare questo fenomeno, ma non ci dilungheremo a prenderle tutte in considerazione, per il fine di questo articolo ci è sufficiente prendere in considerazione solo alcuni punti. Senza dubbio, zone come quelle equatoriali, che ricevono una maggiore quantità di luce solare, sono favorite nell'ospitare un maggior numero di specie rispetto a zone che ricevono una minore quantità di energia da parte del sole; inoltre, essendo qui il clima e altri fattori, sia chimici che fisici, maggiormente stabili, le specie non hanno subito grandi sconvolgimenti come quelli avvenuti nelle ere glaciali e hanno avuto, quindi, tutto il tempo di evolvere e di specializzarsi, andando a occupare ogni nicchia ecologica disponibile. Con questo non sto dicendo che tutte le aree a più elevata diversità biologica si trovano nella zona equatoriale, ma sto solo dicendo che spostandosi dai poli all'equatore, in linea di massima, la diversità aumenta. I motivi principali li abbiamo spiegati. A parte l'influenza della latitudine, esistono alcune aree in cui si trovano particolari ambienti in grado di ospitare organismi che si sono adattati a vivere solo in questi tipi di habitat. Queste zone, spesso molto ristrette, sono note come centri di endemismo e si trovano sparse un po' qua e là sul nostro pianeta. Per fare qualche esempio: lago Vittoria in Africa, alcune aree costiere mediterranee, il Madagascar, la zona indonesiana, ecc... In un lavoro del 2000, pubblicato sulla rivista "Nature" da parte di Myers e collaboratori, vengono individuati 25 di questi centri, chiamati hotspots, aree della terra ad alta biodiversità. Sulla base di questo principio, considerando quindi che la biodiversità risulta essere concentrata su una superficie molto ristretta, preservando questi centri si potrebbe salvare la maggior parte della biodiversità esistente, investendo una quantità di risorse (umane e monetarie) relativamente moderata e massimizzando i risultati. A complicare le cose troviamo però il fatto che l'uomo, spesso, ha stabilito le sue abitazioni e le sue attività proprio all'interno di queste aree, influendo negativamente, sia in maniera diretta che indiretta, sulle specie presenti in questi ecosistemi particolarmente preziosi. Una soluzione potrebbero essere le "aree protette", ma queste presentano una superficie troppo poco limitata per poter davvero preservare la biodiversità e immaginare di creare aree protette di grandi dimensioni è una cosa ormai impensabile nel mondo di oggi, quando l'uomo ha ormai già profondamente trasformato, sfruttandola, gran parte delle superficie terrestre. Secondo alcuni studi, infatti, tali aree, per poter svolgere la loro funzione, dovrebbero coprire tutte assieme circa il 50% della superficie terrestre. La scienza della conservazione è una nuova disciplina che si occupa proprio di preservare le specie dall'estinzione e di mantenere in equilibrio i vari ecosistemi; tuttavia, nonostante gli sforzi che si possano compiere, se prima non si sensibilizza veramente tutta la comunità, serviranno davvero a poco tutti i suoi sforzi, per quanto ammirevoli e nobili essi possano essere. Essendo una scienza che richiede grossi interventi a livello mondiale, non può fare a meno di coinvolgere le varie nazioni e ottenere il consenso nelle scelte politiche degli Stati.  La scienza della conservazione delle specie va intesa quindi come una scienza interdisciplinare, poiché per poter raggiungere i suoi fini deve comunicare con altre scienze, sia naturali che sociali. Ancora conosciamo troppo poco, sono state catalogate circa 1,8 milioni di specie e la stima di quelle esistenti è molto approssimativa, variando da 3 a 30 milioni e secondo alcuni molto più di 30 milioni. Molte di queste specie si estingueranno ancor prima di essere scoperte, motivo per cui calcolare i tassi di estinzione non è cosa semplice. Inoltre, di tanto in tanto, si sente parlare di qualche specie che è stata "riscoperta", dopo essere stata dichiarata estinta. Le specie considerate minacciate sono riportate nella "red list" della IUCN (International Union for Conservation of Nature); tuttavia, anche in questo caso, le stime e i dati sono ancora approssimativi e incompleti. Viviamo nell'era della crisi globale, dei cambiamenti e delle estinzioni, quale futuro ci attende? Agli occhi di un'ipotetica forma di vita superiore che arrivasse sulla terra dallo spazio e studiasse il nostro comportamento, non appariremmo forse come dei perfetti parassiti della terra? Quale futuro attende l'uomo, questa specie egoista che in fondo, sebbene a danno delle altre specie, esegue gli ordini dettati dai suoi stessi geni, si riproduce. Chi ci dice che un'altra specie al posto nostro non avrebbe fatto lo stesso, se non addirittura di peggio? D'altro canto, però, l'uomo è un essere pensante che non trasmette solo i geni ai suoi discendenti, ma anche cultura. Ma c'è una profonda differenza, i geni vengono trasmessi e acquisiti direttamente (e con essi la manifestazione dei vari fenotipi in base alle regole della genetica), la cultura no. Ogni volta, ogni generazione deve cominciare da zero. E' forse questo il motivo per cui non riusciamo a imparare dalla storia? E' forse per questo che con la nostra cultura e conoscenza non riusciamo ad avere la meglio sui nostri stessi geni? Sulla nostra stessa natura egoista? Perché non riusciamo a comportarci come specie razionale nonostante la nostra cultura e intelligenza? E voi che desiderate un mare più pulito, senza plastica e senza petrolio, perché? Volete davvero il bene delle altre specie? Temete per la loro vita? O forse volete semplicemente un posto pulito per sdraiarvi al sole o un'acqua non contaminata in cui fare il bagno? Voi fotografi naturalisti, perché avete così tanto a cuore il destino delle vostre specie preferite? Perché le amate davvero o per paura che qualche giorno non le troviate più a farsi fotografare dalle vostre macchine? E noi, studiosi del mare, amiamo gli organismi marini o amiamo solo studiare gli organismi marini? E voi "ambientalisti"? Temete per la salute dei vostri animali o per l'eventuale fine di un vostro centro recupero o di altre attività remunerative che, in realtà, sfruttano solamente il buon nome di queste creature? Non siete forse anche voi degli egoisti mascherati d'altruismo? E voi, "divulgatori scientifici", perché divulgate? Nella speranza di salvare la natura o di salvare voi stessi dalla noia e dalla disoccupazione? Non è che andate in cerca di fama e gli indifesi animali sono solo un vostro mezzo, un mezzo come un altro, per arrivare al successo, vero? Si potrebbe ancora scrivere quasi all'infinito, ma prima di chiudere è doveroso parlare di quelle poche "anomalie" (forse meglio senza virgolette) che amano la natura davvero. Fortunatamente esistono persone, anche se poche, che  cercano di contrastare il declino in cui ci troviamo, possiamo considerarli i "regolatori del sistema", chissà...hanno forse i geni dell'altruismo? E' il sistema naturale stesso che li "controlla" su base genetica per tentare il raggiungimento dell'equilibrio?... C'è gente che riesce a guardare ben oltre il semplice fine utilitaristico che la biodiversità può avere per l'uomo e riconosce in ogni essere vivente un valore proprio, intrinseco, indipendente da ogni altro e dato dalla semplice esistenza di una qualsiasi specie come unità biologica. La cosa più giusta da dire, secondo l'autore di questo articolo, è quella di cercare di raggiungere il nostro equilibrio come specie, di rimanere nel giusto contatto con la natura, di limitare l'inquinamento, di regolare lo sfruttamento delle risorse e di fare in modo che tutte le popolazioni (umane) di questa terra possano trarne gli stessi benefici. In fondo, lo facciamo per le future generazioni, per i nostri figli e nipoti, in fondo sarebbe sempre e comunque un fine egoista: preservare l'ambiente per farlo durare il più a lungo possibile, in modo tale da permettere alle future generazioni di poterne usufruire da ogni punto di vista, di sopravvivenza o semplicemente ricreativo che sia. Ma anche in questo caso non l'avremo fatto per il bene delle altre specie, ma solo per quello della nostra, come ogni buona specie egoisticamente farebbe...

In foto i pesci trombetta (Macroramphosus scolopax), solo una delle infinite forme di vita presenti sul nostro pianeta (Foto © Francesco Turano).

lunedì 12 agosto 2013

Pesca, dal passato a oggi: storia, arte, cultura, passione e risorsa




L’arte della pesca accompagna l’uomo fin dagli albori della sua comparsa come specie. Le antiche popolazioni e tribù, che si stabilirono sulle coste, trovarono una preziosa fonte alimentare a cui attingere, raccogliendo, ad esempio, molluschi e crostacei o pescando attivamente pesci e altri organismi marini che si presentavano con grande abbondanza e varietà di specie; inoltre, da alcune conchiglie e dalle vertebre dei pesci si ricavavano utensili vari. Anche le spugne, particolari e primitivi animali marini, venivano raccolte e lavorate per essere rese utili alla pulizia del corpo e degli ambienti domestici. Ancora oggi alcune tribù ricavano dal mare la loro principale fonte di sussistenza come, per fare qualche esempio, sull’isola di Lembata, in Indonesia, dove gruppi di pescatori si recano a caccia di squali e cetacei con le loro piccole imbarcazioni e i loro rudimentali arpioni sostenuti da un lungo e robusto fusto di bambù. Altro esempio è la pesca del “palolo” (porzione matura deputata alla riproduzione di vermi policheti appartenenti alla famiglia Eunicidae) praticata da alcune popolazioni indigene delle coste del Pacifico, che conoscono alla perfezione il periodo  e le condizioni adatte per la raccolta in mare di quest’altra preziosa fonte alimentare. Esempio eclatante che riguarda in prima persona noi italiani e in particolare calabresi e siciliani è la pesca al pesce spada, spesso definita “caccia” per la particolare tecnica in cui la preda viene ricercata, inseguita e, infine, mortalmente arpionata prima di essere issata a bordo dalle particolari e caratteristiche imbarcazioni dello Stretto di Messina, che solcano in lungo e in largo le sue acque alla ricerca del “Pisci”, ormai da tempi immemorabili. Sulle alte vedette delle grandi imbarcazioni sembrano ancora riecheggiare le antiche grida in lingua greca (si riteneva, infatti, che il Pesce spada fosse in grado di percepire la differenza tra greco e italiano e di inabissarsi, scomparendo per sempre, al solo udire di una singola parola di quest’ultima lingua) che davano fondamentali informazioni al pescatore che si trovava sulla passerella (“lanzaturi”), pronto a veder apparire sotto di se la grande sagoma del pesce e a colpirlo con un’abilità e precisione che solo anni di esperienza possono dare. Tale pesca, anche se non più fruttuosa come prima, viene ancora praticata nello Stretto e ogni equipaggio ha una precisa zona di mare assegnata, che è rimasta fondamentalmente identica a quella di qualche secolo fa. Quando l’uomo costruì i primi ami, questi erano molto rudimentali, fatti con le conchiglie più dure o con le resistenti ossa di alcuni vertebrati; non erano ricurvi come quelli di oggi e mancavano di ardiglione. Con il passare degli anni l’uomo ha affinato sempre più la tecnica, con attrezzi sempre migliori e che permettono maggiori catture, in quanto la possibilità di liberarsi del pesce è sempre più bassa. Alcuni attrezzi da pesca, come certe reti, palangari e trappole, sono rimasti come funzionamento e struttura praticamente invariati fino ad oggi, l’unica cosa che negli ultimi anni è cambiata è stato il materiale di cui sono costituiti; le reti utilizzate dagli antichi pescatori, infatti, erano di fibra vegetale, motivo per cui venivano frequentemente sottoposte a particolari e lunghe manutenzioni e, inoltre, richiedevano tempi piuttosto lunghi per asciugarsi quando non venivano utilizzate; il materiale che costituisce le reti moderne, invece, è materiale di sintesi ed è di gran lunga più resistente e duraturo rispetto alla fibra vegetale, nonché anche impermeabile. Tutto ciò ha i suoi ovvi vantaggi in termini di efficienza e gestione, tuttavia, c’è da dire che quando una rete moderna si perde, ad esempio, a seguito di una mareggiata, rimane tanti anni in fondo al mare senza degradarsi, continuando a catturare e uccidere inutilmente vari organismi marini. A tali reti viene talvolta attribuito il nome di “reti fantasma”. Oggi, quindi, utilizziamo quasi tutti materiali di sintesi, ottimi materiali utilizzabili anche più volte e che hanno ottime capacità di resistenza all’abrasione e alla corrosione, per non parlare dell’invisibilità totale, o quasi, di alcuni monofili. Tutto questo senza entrare nei particolari delle infinite gamme di minuterie previste per le numerosissime tecniche di pesca ormai esistenti, da riva e dalla barca. Oltre ad affinare la tecnica e a costruire attrezzi sempre più efficienti, l’uomo ha acquisito nel tempo molte conoscenze sulla fauna ittica e marina in genere e ne ha catalogato le specie, imparando a conoscerne le abitudini e a distinguere quelle più pregiate da quelle che lo sono meno, quando non addirittura tossiche. Parlando di pesca sportiva, questa, la si può suddividere in due principali grandi categorie: la pesca in acque interne e la pesca in mare. Le esche utilizzate in acque interne, per chiari motivi, sono solitamente diverse da quelle utilizzate nella pesca in mare, mentre molte tecniche sono fondamentalmente identiche; infatti, diverse tecniche adoperate per le acque interne sono state in seguito adattate per il mare (ad esempio variando un po’ l’attrezzatura, i calamenti, ecc…) e viceversa. Per entrambe le grandi categorie di pesca citate, esistono oggi sul mercato numerose riviste specializzate, più o meno valide e che spesso risultano essere ripetitive.  Attrezzo fondamentale per eccellenza della pesca sportiva è la canna, sia essa fissa o da lancio e in quest’ultimo caso abbinata a un mulinello che, a sua volta, può essere a bobina fissa o rotante. Le prime canne erano naturali, ricavate dai fusti del bambù o di altre piante, in base alla località, e non prevedevano l’uso di mulinello; erano piuttosto rudimentali e spesso poco sensibili alle “toccate” del pesce. Oggi si hanno sul mercato attrezzi molto evoluti costituiti da fibre di vetro e carbonio, le cosiddette telescopiche e le ripartite di ultima generazione (costituite da carbonio ad “alto modulo”), che permettono, nelle mani esperte del pescatore, prestazioni un tempo impensabili, arrivando ad un compromesso tra resistenza, robustezza, elasticità e sensibilità senza eguali. Il prezzo di alcune canne può anche superare le mille euro, ma generalmente con due o tre centinaia di euro si prendono canne eccellenti, abbinate a mulinelli altrettanto valenti; infatti, spesso, accanto a prezzi esorbitanti non corrisponde materiale effettivamente o notevolmente superiore e nella maggior parte dei casi è più una questione di mercato e pubblicità che di qualità. Ovviamente, la canna, sebbene sia l’attrezzo fondamentale, non è tutto e da sola non avrebbe potuto permettere mai a nessun pescatore di catturare un solo pesce. Ad accompagnare il pescatore di oggi ci sono tanti “attrezzi del mestiere” minori, ma essenziali, come, ad esempio, ami di ogni dimensione e tipologia, piombi altrettanto vari, monofili, trecciati, galleggianti di ogni grammatura, forma e colore, esche artificiali e naturali di ogni tipo e ancora una miriade di altra “minuteria da pesca”. Sta poi nell’abilità ed esperienza del pescatore capire come combinare al meglio il tutto, ad esempio scegliendo il giusto “calamento”, il giusto terminale da legare all’amo idoneo, l’esca più appropriata per insidiare la specie giusta, ma anche scegliere il luogo e il momento giusto per farlo. Insomma, quando si parla di pesca, sebbene il fattore “fortuna” spesso influisca sull’esito di ogni battuta, niente è mai lasciato a caso e tutto è meticolosamente studiato. C’è anche da dire, poi, che oggi il pesce è decisamente più scarso rispetto al passato ed è sempre più smaliziato. La tecnica quindi si evolve di conseguenza con ami sempre più catturanti e lenze sempre più invisibili e resistenti, che aiutano certamente a tirare fuori dall’acqua un pesce sempre più diffidente e infrequente. Oggi l’arte della pesca, con riferimento a quella sportiva, ha conquistato tutti, grandi e piccoli, che vi trovano momenti di svago, divertimento, relax e competizione. In quest’ultimo caso, esistono ormai varie associazioni sportive che si sfidano tra loro nelle varie discipline e a vario livello: provinciale, regionale, nazionale o mondiale. La lotta tra uomo predatore e pesce preda si protrae ancora oggi, in un’epoca dove la preda è vista più come una conquista sportiva piuttosto che come un gustoso e prezioso bottino, tanto è vero che alcuni sportivi praticano il cosiddetto Catch and Release (cattura e rilascia). In definitiva, nonostante le motivazioni diverse che spingano l’uomo ad ingegnarsi sempre di più nell’arte della pesca, con tutte le sue tecniche e gli attrezzi sempre più evoluti, il rito della pesca si è conservato intatto nell’animo dell’uomo e quell’emozione che si prova dentro al momento dell’abboccata è rimasta la stessa entusiasmante primitiva sensazione che solo un pescatore può capire. La cattura di una preda importante, da immortalare, dopo ore di attesa e tanti precedenti tentativi andati a vuoto (“cappotti”, per rimanere in tema) è un qualcosa di incomparabile. Purtroppo, c’è da dire che oggi l’uomo sta sottoponendo a uno sfruttamento eccessivo diverse popolazioni ittiche (overfishing), ma anche popolazioni di altri organismi marini, molte delle quali hanno già subito gravi declini negli ultimi decenni. Allentare la pressione su queste popolazioni consentirebbe, in tempi piuttosto brevi, la ripresa delle popolazioni stesse e la possibilità di attuare una pesca sostenibile, che sfrutta sì la risorsa, ma con responsabilità e permettendone un utilizzo futuro alle nuove generazioni. Come si è detto, sebbene gli attrezzi siano rimasti sostanzialmente uguali da tempo immemorabile, le imbarcazioni si sono molto evolute, soprattutto i sistemi di rilevazione del pesce che vengono utilizzati a bordo e che difficilmente portano a cale andate a vuoto. Inoltre, molte grosse imbarcazioni possono rimanere al largo e pescare di continuo anche per diversi mesi, grazie all’utilizzo di opportune celle frigorifere a bordo. Altre imbarcazioni, addirittura, lavorano il pesce  direttamente a bordo e sbarcano, quindi, un prodotto pronto alla vendita. A tutto ciò si aggiungono macchinari che permettono la cala e il recupero di reti e palangari quasi automatica, accelerando i tempi di pesca e quindi permettendo di effettuare un numero sempre più numeroso di cale e di gettare in mare attrezzi che si estendono anche per qualche decina di chilometri. Altro problema riguarda quello delle cosiddette “catture accidentali” o altrimenti note come bycatch. Tra le specie del bycatch rientrano (in base a una delle varie definizioni date) quelle che hanno un certo valore commerciale e trovano comunque mercato, ma rientrano anche e soprattutto specie che, non venendo consumate perché non apprezzate o non commestibili, sono rigettate in mare come semplici rifiuti, dove sono destinate quasi tutte a morte certa. Squali, cetacei e tartarughe marine sono spesso vittime “non volute” di palangari e di alcuni particolari tipi di reti, come le reti a strascico. Questi organismi, anche se non vengono venduti per il consumo o se comunque vengono venduti fraudolentemente o illegalmente, non sono di solito graditi alla maggior parte delle popolazioni umane moderne, che hanno cambiato parecchio i gusti e le preferenze alimentari, anche per quanto riguarda i prodotti della pesca e che spesso si orientano sul consumo mirato ed abituale di pochissime specie. Altro problema è quello del “finning”, ovvero la cattura volontaria di squali solo per ricavarne le pinne, pietanza assai gradita soprattutto nell’Oriente, dove viene venduta a prezzi decisamente elevati. Gli squali in questione, spesso, vengono rigettati in mare ancora agonizzanti e certamente destinati a morire. Il problema, per queste specie, sta nel fatto che i cicli vitali sono generalmente più lunghi rispetto a quelli dei pesci ossei (sgombri, naselli, acciughe, sardine, etc..), l’età di riproduzione per essere raggiunta richiede spesso parecchi anni e la prole è solitamente poco numerosa, trattandosi a volte di uno, due o pochissimi individui. Tali popolazioni risultano quindi essere decisamente più vulnerabili, infatti, di conseguenza a quanto detto, hanno tempi di ripresa più lunghi, tempi che non sono affatto in armonia con i ritmi virtuosi della pesca che oggi si ha su scala globale. Ricordiamo, inoltre, che gli squali svolgono importanti ruoli regolatori all’interno dell’ecosistema e questo è uno dei vari motivi per cui meritano protezione e rispetto al pari di tutte le altre specie a noi più familiari. Continuando con questi ritmi, in tempi brevi, diverse popolazioni di organismi marini vedranno il collasso, popolazioni che, fino a non molto tempo fa, credevamo inesauribili…. L’ittiocoltura, d’altro canto, pare non essere la soluzione definitiva, l’alternativa alla pesca tradizionale, in quanto, i mangimi dati ai pesci d’allevamento, nella stramaggioranza dei casi, sono essi stessi farine di pesce opportunamente trattate e lavorate o comunque trattasi sempre di prodotti che includono organismi provenienti dal mare e che, quindi, danno il loro contributo all’overfishing, ma questa è un’altra storia … 


In foto, scattata in Sicilia, un pescatore utilizza una rete da lancio, antica tecnica utilizzata anche in Paesi extramediterranei. Tale tecnica, efficace solo in acque molto basse, richiede una certa esperienza da parte del pescatore, sia nella fase di avvicinamento che in quella di lancio e recupero.

lunedì 25 marzo 2013

Inquinamento: info-distruzione in ambiente acquatico


Oggi di inquinanti ne abbiamo davvero tanti e di ogni tipo e la quasi totalità è di origine antropica. Per molti di essi la destinazione ultima è l'ambiente marino, che viene raggiunto direttamente o indirettamente (precipitazioni, acque di dilavamento, fiumi, ecc...). Negli ultimi 300 anni la popolazione umana è cresciuta a dismisura, seguendo una crescita quasi esponenziale. Tutto ciò grazie all'avvento delle macchine e dei nuovi sistemi di produzione. Parallelamente all'aumento della popolazione, dal periodo della rivoluzione industriale ad oggi, l'inquinamento ha raggiunto livelli molto alti, concentrazioni spesso superiori alla capacità di recupero e compensazione dell'ambiente. Le conseguenze possono essere la perdita di biodiversità e l'insorgere di alcune patologie che possono colpire anche l'uomo. In genere, per inquinamento marino, si intende  l'immissione diretta o indiretta da parte dell'uomo in mare di materia e/o energie che alterano e/o danneggiano l'ambiente e gli organismi, uomo compreso. Nel gergo comune per inquinante si intende una qualsiasi sostanza creata dall'uomo, immessa nell'ambiente e che si rivela dannosa per quest'ultimo; tuttavia, esistono anche fonti naturali di rilascio di sostanze tossiche per l'ambiente. Altri danni ambientali derivano da uno sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, dalla distruzione degli habitat e dall'introduzione di specie alloctone invasive. Gli inquinanti si possono suddividere in due grandi categorie: i biodegradabili, che sono soggetti alla degradazione, e quelli non degradabili, che non sono soggetti a degradazione o, se lo sono, vengono degradati molto lentamente. Mentre i primi, generalmente, non rappresentano gravi problemi per le acque se queste sono ben ossigenate e vi è un buon ricircolo, in quanto vengono facilmente diluiti e degradati, minimizzando l'impatto per l'ambiente e al massimo gli effetti, solitamente, si manifestano nella zona direttamente colpita dalla fonte inquinante; i secondi, spesso altamente tossici, non sono soggetti a degradazione e possono essere solo diluiti e dispersi maggiormente, senza perdere la tossicità; inoltre, alcuni di essi sono soggetti ad accumulo biologico negli organismi. Si sente spesso parlare di inquinamento da petrolio, da materiale plastico, da sedimenti vari, da metalli pesanti, da DDT, da PCB, da TBT, di eutrofizzazione, forse, un po' meno di inquinamento termico e dei relativi effetti che tutti questi inquinanti hanno sui vari organismi. Pochi però possono immaginare gli effetti che alcuni inquinanti hanno a livello chemiosensoriale, soprattutto olfattivo, nei pesci. La distruzione dell'informazione o "info-distruzione" distrugge i meccanismi tramite i quali varie sostanze vengono captate dall'ambiente circostante. Nell'ambiente acquatico, spesso, sensi come vista e udito (molto importanti per tanti vertebrati terrestri, uomo compreso) sono secondari per l'orientamento nei pesci (soprattutto in acque torbide e in ambienti rumorosi), mentre, alcune sostanze chimiche ("messaggeri chimici") rilasciate nell'ambiente, come i feromoni, ormoni steroidei, aminoacidi, prostaglandine, ecc..., svolgono un ruolo essenziale nella comunicazione. Gli stimoli chimici diffondono facilmente nell'acqua e, inoltre, permangono nell'ambiente anche dopo l'allontanamento di chi ha rilasciato il segnale. Viene quindi spontaneo immaginare l'importanza che hanno queste sostanze messaggere nella segnalazione chimica d'allarme, nella localizzazione del cibo, nella ricerca di un partner, nel marcare il territorio e nell'evitare i predatori. I recettori olfattivi vengono stimolati a concentrazioni davvero molto basse. E' stato dimostrato, ad esempio, che l'Anguilla (Anguilla anguilla) sia in grado di percepire la presenza dell'alcol b-feniletilico ad una concentrazione equivalente ad una sola molecola nella sua camera olfattoria. Prima di vedere come certe categorie di inquinanti, tra cui alcuni metalli e pesticidi, possano distruggere il sistema chemiosensoriale olfattivo, occorre un attimino vedere il funzionamento di questo importantissimo sistema. Tra un animale e l'altro, il sistema olfattivo mostra delle enormi differenze, tuttavia, a livello cellulare, le molecole segnale vengono riconosciute da recettori sensoriali costituiti da neuroni bipolari che, invece, mostrano profonde  similitudini anche in animali molto diversi, dagli insetti ai mammiferi. Tali neuroni sono costituiti da due prolungamenti che si diramano dai lati opposti del corpo cellulare, il dendrite e l'assone. Il dendrite (sito d'ingresso dell'informazione) si allunga dal corpo cellulare fino a raggiungere l'esterno; mentre l'assone (sito di propagazione dell'informazione) si estende in direzione opposta, verso i centri nervosi. Nella zona di contatto con l'ambiente esterno, il dendrite mostra numerose ciglia sulle cui membrane trovano posto delle molecole recettoriali in grado di riconoscere e quindi legare le varie sostanze odorose. Nei pesci, i recettori olfattivi, si trovano all'interno di particolari strutture: le fossette olfattive. Le fossette comunicano con l'ambiente esterno tramite le narici. Molti teleostei (pesci ossei) hanno un paio di narici poste al lato del capo, altri solo una per lato. Mentre i pesci cartilaginei hanno le narici poste inferiormente al capo, i teleostei le hanno disposte superiormente. All'interno delle narici, l'epitelio olfattivo presenta delle pieghe, denominate rosette. Maggiore è il numero di queste ultime, maggiore sarà la sensibilità olfattiva del pesce. L'assone del neurone bipolare, invece, si collega al bulbo olfattivo e prende contatto sinaptico con altri neuroni; gli assoni di tutti i neuroni olfattivi andranno a formare il nervo olfattivo. Il segnale chimico viaggia quindi dall'ambiente esterno al nervo olfattivo (trasduzione del segnale) e da qui ai centri nervosi superiori dove vengono elaborate le risposte agli stimoli. Come abbiamo detto, la parte dendritica del neurone è esposta direttamente all'ambiente esterno e quindi, in caso di inquinanti, riceve direttamente il danno. Tra gli inquinanti in grado di danneggiare il sistema olfattivo ci sono alcuni erbicidi e pesticidi e molti metalli, tra cui mercurio (Hg), manganese (Mn), cadmio (Cd) e nichel (Ni); tuttavia, i meccanismi che portano all' "info-distruzione" sono ancora poco noti. E' stato dimostrato, però, che nel Pesciolino rosso (Carassius auratus auratus) l'atrazina (erbicida) inibisce le risposte antipredatorie; nella Trota (Salmo trutta), invece, si hanno altre disfunzioni comportamentali e nella Carpa (Cyprinus carpio) questo inquinante causa apoptosi nelle cellule olfattive. Verosimilmente molti effetti deleteri si hanno anche per molte specie ittiche marine, ma ancora non si conosce bene quali specie risultino più vulnerabili e come agiscano i vari inquinanti "info-distruttori". In tutti i casi la distruzione dell'informazione porta a un cattivo "funzionamento" nei pesci con tutte le conseguenze immaginabili per le specie colpite, che saranno meno competitive nell'ambiente naturale. Altra importante considerazione da fare è che nei test di tossicità standard misure di concentrazioni sicure, potrebbero, vista l'elevata sensibilità del sistema olfattivo, essere di gran lunga superiori a quelle che possono determinare l' "info-distruzione".

martedì 7 febbraio 2012

Conchiglie



Tantissimi di noi da piccoli, passeggiando su una spiaggia, magari in una soleggiata giornata estiva, si sono imbattuti per la prima volta in una conchiglia.  Probabilmente si trattava di una “classica” valva di bivalve, caratteristico di ambienti sabbiosi, o forse di una conchiglia spiralata ed elegante di un  gasteropode. Molti hanno osservato il bianco e leggero “osso di seppia” adagiato sulla riva sabbiosa dalle onde del mare, magari non pensando che tale struttura appartenesse al ben noto cefalopode e, soprattutto, senza pensare che anch’essa è una conchiglia. Fin dai tempi più remoti della nostra civiltà le conchiglie hanno affascinato l’uomo. Le popolazioni costiere, infatti, oltre a trarne una preziosa  fonte alimentare, le hanno utilizzate per costruirne oggetti utili alla vita quotidiana, come lame affilate ed ami da pesca. La bellezza strutturale e i colori di molte conchiglie sono caratteristiche apprezzate non solo dagli odierni malacologi e collezionisti, ma sono state da sempre contemplate dalle antiche popolazioni costiere, che dalle conchiglie ricavavano monili, moneta di scambio, oggetti per ornare ed abbellire il corpo, come collane od orecchini, indossati da individui che ricoprivano una posizione sociale superiore, come avveniva, ed avviene ancora oggi, in alcune lontane tribù. I Fenici estraevano da alcuni gasteropodi, appartenenti alla famiglia Muricidae, la preziosa porpora, usata per tingere le vesti delle classi nobili. Le perle create da alcune specie di ostriche hanno avuto un valore inestimabile nelle civiltà antiche ed oggi, con tecniche sempre più raffinate e il minuzioso lavoro di veri maestri dell’”arte dell’ostrica”, si ottengono perle perfettamente sferiche, vendute a prezzi esorbitanti. Dopo questo breve sguardo al passato, vediamo adesso quali sono i principali tipi di conchiglia, la loro struttura e le relative funzioni. Prenderemo in esame cinque tipi di conchiglie diverse, appartenenti a tre diverse classi di molluschi, scelte appositamente tra quelli che ritengo più “comuni” e note ai più. Tali conchiglie, come vedremo, hanno caratteristiche strutturali e funzionali ben diverse. Si sono, difatti, adattate al meglio all’ambiente in cui ciascun organismo vive. Sottolineo, prima di passare alle singole descrizioni, che le vere conchiglie sono strutture calcaree esclusive dei molluschi, raggruppamento del Regno animale caratterizzato da un corpo molle; sebbene in alcuni altri taxa animali vi siano strutture omonime, talvolta simili per forma e composizione. Le conchiglie dei molluschi hanno una particolare composizione chimica e strutturale disposta a strati, con componente fondamentale il carbonato di calcio (CaCO3). Sono secrete dal mollusco stesso e si accrescono con esso.

Classe Cefalopoda:

-          Seppia (Sepia officinalis): la conchiglia interna della seppia, dalla forma affusolata, ha come principale funzione quella di sostegno al corpo dell’animale e ne impedisce quindi il collasso permettendo un nuoto efficiente. E’, inoltre, implicata nel galleggiamento dell’animale, fungendo quindi, similmente alla conchiglia esterna di Nautilus, da organo idrostatico. Tale conchiglia è, infatti, settata e nelle sue numerose cavità contiene gas (motivo per cui è molto leggera).

-          Nautilo (Nautilus spp.): al genere Nautilus appartengono poche specie di cefalopodi dotati di una grossa ed elegante conchiglia, considerati fossili viventi. La conchiglia è avvolta sullo stesso piano ed è suddivisa da setti in diverse camere isolate. Le camere sono attraversate da un canale coinvolto negli scambi gassosi. Tali camere sono, infatti, piene di gas, la cui concentrazione viene regolata dall’animale e che assieme fungono quindi da organo idrostatico, permettendo il galleggiamento. Il mollusco vive all’interno dell’ultima camera di questa grossa conchiglia, che è la più voluminosa e di più recente formazione. Il nautilo possiede numerosi tentacoli privi di ventose, utilizzati per la cattura del cibo.


Classe Gastropoda:

-          Murice ( Bolinus brandaris): la conchiglia è in questo caso spiralata e contiene il corpo dell’animale, che ha, di conseguenza, tutto il corpo ed i visceri avvolti a spirale. La funzione è quella di proteggere il molle e vulnerabile corpo dall’attacco dei predatori. Un opercolo di natura cornea chiude la “bocca” della conchiglia quando l’animale, per proteggersi, decide di retrarsi completamente al suo interno. Questo mollusco è caratteristico del Mediterraneo e facilmente distinguibile per il lungo canale sifonale della sua conchiglia e per la presenza di spinosità piuttosto pronunciate. Un tempo da questa specie si estraeva la preziosa porpora.

-          Patella (Patella spp.): mollusco gasteropode che vive attaccato su rocce e altri substrati duri bagnati dal mare. Comune nel piano sopralitorale e nella zona di marea. Vive raschiando dal substrato, con la sua particolare e specializzata “lingua” (radula), piccole alghe e microrganismi. In condizioni di disseccamento, o quando viene disturbato, aderisce molto tenacemente al substrato duro su cui vive e rimuoverlo a mani nude risulta molto difficile. Nel primo caso il comportamento è rivolto ad evitare la disidratazione (questi organismi sono in grado di resistere all’asciutto per periodi sorprendentemente lunghi considerando che si tratta di organismi marini); mentre nel secondo caso il comportamento ha funzione difensiva. La conchiglia di questo mollusco si presenta piuttosto schiacciata e conica.

Classe Bivalvia:

-          Mitilo o “Cozza” (Mytilus galloprovincialis): mollusco caratterizzato da conchiglia bivalve, tenuta chiusa da muscoli. L’animale vive alimentandosi per filtrazione, tenendo le valve leggermente aperte e richiudendole al minimo segnale di pericolo o in condizioni di bassa marea, quando si trova esposto all’aria.


Abbiamo visto quanto importante sia la funzione della conchiglia per alcuni dei tantissimi molluschi che la possiedono. Molti molluschi fossili, ormai estinti, sono stati rinvenuti. Ad esempio, le Ammoniti, esteriormente simili al Nautilo, hanno lasciato testimonianze fossili grazie alla loro grossa conchiglia, che quando non è stata preservata dal tempo, ha comunque lasciato un’indelebile ed inconfondibile impronta in un calco all’interno delle rocce. Spesso conchiglie fossili sono state rinvenute in zone molto distanti dalle coste, testimonianza questa di come il livello della superficie marina e la geografia terrestre sia stata enormemente difforme rispetto ai giorni nostri. Gli geologi utilizzano questi fossili come utile strumento per datare in modo alquanto preciso le rocce di origine sedimentaria. I primi fossili di molluschi dotati di conchiglia risalgono al Cambriano. Per le specie prive di conchiglia, che molto probabilmente furono i progenitori delle forme con conchiglia, non è rimasta nessuna testimonianza fossile; la conchiglia, infatti, rappresenta l’unica struttura in grado di resistere a periodi di tempo estremamente lunghi. Per quanto riguarda la filogenesi dei molluschi, ovvero l’origine da un antenato comune, ancora è aperto il dibattito tra gli zoologi; tuttavia, per quanto riguarda l’evoluzione dei molluschi con conchiglia, si ritiene che essi abbiano avuto tutti origine da un progenitore esternamente simile ad una odierna patella, che subì una profonda modificazione, strutturale ed anatomica.  

In foto: visione ventrale (A) e dorsale (B) di Galeodea echinophora, mollusco gasteropode di medie dimensioni. Vive su fondali sabbiosi o fangosi, da pochi fino a diverse decine di metri di profondità. E’ una specie carnivora. Spesso la si ritrova tra il pescato delle reti a strascico. La conchiglia in foto misura 6 cm circa. Visione ventrale (C) e dorsale (D) di Patella caerulea, gasteropode medio-piccolo comune in acque tidali. Si nutre raschiano alghe dalla superficie solida degli scogli o dei moli. La conchiglia in foto misura 3 cm.